di Stefano Vinti
Professore ordinario di Diritto Amministrativo
Sapienza – Università di Roma
Sommario: 1. Gli appalti pubblici: un ordinamento settoriale dalle molteplici anime. 2. La tradizionale visione ‘italiana’: il contenimento della spesa pubblica. 3. La dimensione ‘europea’: la tutela della concorrenza. 4. La moderna deriva ‘penalistica’: il contrasto della corruzione. 5. L’appalto come operazione amministrativa. 6. Gli spunti del Codice del processo amministrativo. 7. Quali obiettivi perseguire. 8. Ragioni sistematiche sorreggono il ragionamento.
1. Gli appalti pubblici: un ordinamento settoriale dalle molteplici anime
Il presente studio vuol tornare ad affrontare un tema continuamente al centro delle attenzioni del legislatore ordinario: l’attività consensuale della pubblica amministrazione in rapporto alla disciplina della cd. «evidenza pubblica».
L’argomento appare quanto mai attuale non tanto per i suoi incessanti rivolgimenti strutturali (specialmente dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici che ha potenziato il ruolo paranormativo dell’Anac, introducendo l’ambigua figura delle cd. ‘Linee Guida’), quanto e soprattutto per la perdurante mancanza di univocità di un sistema che attualmente risente della sovrapposizione (spesso anche disordinata), di norme eterogenee, di differente derivazione ordinamentale e non di rado giustificate da ragioni ideologiche prima ancora che giuridiche.
Quel che ne deriva è un quadro settoriale composito – si potrebbe dire, dalle molte anime – apparentemente privo di un elemento in grado di districare le fila di una trama non sempre lineare.
Su questi temi intendono allora soffermarsi, seppur brevemente, le presenti note con l’auspicio di individuare un criterio capace di collegare le dimensioni sparse dell’evidenza pubblica, e dare più di un motivo per marcare la differenza fra obiettivi da perseguire e tutelare in quella sede e valori la cui salvaguardia e cura resti invece affidata ad altri attori e disciplinata da altre fonti, che occorre tuttavia recepire e coordinare, quanto agli effetti, all’interno del sistema dei contratti pubblici.
2. La tradizionale visione ‘italiana’: il contenimento della spesa pubblica
In Italia, tradizionalmente, l’attività contrattuale della pubblica amministrazione è stata considerata una branca tipica del diritto finanziario. Proprio da questo settore deriva la disciplina dell’evidenza pubblica che rappresenta, da tale angolazione, il canale di collegamento tra l’autonomia privata delle stazioni appaltanti e le esigenze della funzione amministrativa (cioè dell’interesse pubblico) cui il contratto d’appalto è preordinato.
Tale impostazione trova ancora oggi riscontro nelle norme interne di contabilità pubblica che contengono specifiche disposizioni relative al procedimento di formazione della volontà contrattuale della pubblica amministrazione: norme che costituiscono il primo corpo di leggi che ha riguardato – e tuttora continua a riguardare – l’attività negoziale della pubblica amministrazione nell’ottica di garantire il corretto e oculato utilizzo delle risorse erariali.
I «contratti dai quali derivi un’entrata per lo Stato debbono essere preceduti da pubblici incanti» e ancora i «contratti dai quali derivi una spesa per lo Stato debbono essere preceduti da gare mediante pubblico incanto»: questo recitava e recita il regolamento interno di contabilità di Stato.
Ciò dimostra – ma si tratta di aspetti indubbiamente risaputi – che in Italia la vicenda dei contratti della pubblica amministrazione è da sempre fortemente condizionata da imprescindibili esigenze di contenimento della spesa e di corretta gestione delle risorse collettive, entrambe intese come limiti immanenti all’autonomia negoziale degli enti pubblici.
L’obbligo di ricorrere a procedure selettive per i contratti conclusi dall’amministrazione è strettamente connesso, nelle intenzioni originarie del legislatore domestico, al rispetto del principio di buon andamento come mezzo per raggiungere un determinato obiettivo – nel qual caso la ricerca della controparte privata – anche col minor sacrificio possibile in termini di spesa.
Ora, queste brevi notazioni preliminari intendono dar fugace conto di un’impostazione tradizionale – un’anima che si potrebbe definire ‘contabilistica’ – che considera i contratti pubblici (anche di ingente valore economico) quali fatti finanziari che vincolano il processo di formazione della volontà negoziale dell’amministrazione.
Di questa riferita vocazione contabile – ed è l’aspetto che più si vuole qui enfatizzare – permane traccia nel nuovo Codice dei contratti pubblici sotto la formula generale della «economicità» intesa come «uso ottimale delle risorse da impiegare nello svolgimento della selezione ovvero nell’esecuzione del contratto».
In quest’ottica vengono in mente, ad esempio, le disposizioni relative alla fase selettiva che vietano ai concorrenti di presentare offerte in aumento; che consentono all’amministrazione di affidare in taluni casi l’appalto col criterio del prezzo più basso; che impongono di considerare l’incidenza del costo nell’offerta economicamente più vantaggiosa; che permettono alla stazione appaltante di non aggiudicare la gara in presenza di un unico concorrente o di offerte inidonee; oppure, in riferimento alla fase esecutiva, le norme che impongono una durata definita del contratto e ne vietano il rinnovo tacito, quelle sullo ius variandi della stazione appaltante, sulla previa approvazione di nuovi prezzi, sul divieto di anticipazione in conto di spesa, solo di recente reintrodotta, sull’istituto delle riserve e sulle forme di tutela contrattuale apprestate all’amministrazione in caso di esecuzione inesatta o ritardata dell’appalto da parte del privato aggiudicatario.
Previsioni che, in definitiva, valgono a delineare i contorni del vincolo ‘contabilistico’ che tradizionalmente connota l’attività consensuale della pubblica amministrazione e, specialmente, la materia dell’evidenza pubblica che di essa costituisce la manifestazione più diffusa per importanza pratica e per impatto sul sistema finanziario nazionale.
3. La dimensione ‘europea’: la tutela della concorrenza
Con non minore fondamento è possibile tuttavia sostenere che la tradizionale concezione domestica dell’evidenza pubblica coesista oramai, nel tessuto ordinamentale che si è nel corso del tempo stratificato, con un’altra visione che si potrebbe invece definire di matrice ‘europea’.
È più che noto infatti che, in materia di appalti pubblici, si è assistito alla progressiva diffusione di regole e di principi di derivazione sovranazionale per effetto dell’ampliamento e del consolidamento del mercato unico all’interno dell’Unione.
Queste vicende sono state ampiamente indagate dalla dottrina pubblicistica e su di esse non occorre diffondersi oltremodo.
Quel che però merita di essere qui evidenziato è che l’ordinamento europeo, da svariati decenni, ha individuato nella tutela della concorrenza il fine fondamentale della disciplina degli appalti pubblici, elevandola ad obiettivo principale dell’intero sistema.
Fin dall’adozione delle prime direttive di settore, il legislatore sovranazionale ha infatti avvertito il bisogno di introdurre disposizioni volte ad assicurare il rispetto delle regole partecipative, garantendo a tutti gli operatori economici presenti nel mercato dell’Unione pari condizioni di competizione negli Stati membri e altrettanto eguali condizioni di accesso alle gare.
Le direttive europee hanno così inteso soddisfare, per esempio, esigenze di corretta informazione in modo che i partecipanti possano presentare le proprie candidature in maniera adeguata e consapevole. Hanno valorizzato il principio di non discriminazione che impedisce alle stazioni appaltanti di formulare criteri di aggiudicazione che possano essere soddisfatti solo da un numero limitato di imprese. Hanno unificato le procedure di aggiudicazione, con riferimento agli appalti che superano determinate soglie d’importo economico, per impedire agli Stati membri di limitare anche indirettamente la concorrenza nel mercato unico.
Questo assetto – di impronta marcatamente europea – permea anche l’attuale Codice dei contratti pubblici che dichiara e ribadisce che le «disposizioni contenute nel presente codice sono adottate nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza»: si tratta di un riconoscimento esplicito della funzione (pro)concorrenziale della disciplina dell’evidenza pubblica che discende dall’appartenenza dell’Italia all’ordinamento sovranazionale dell’Unione.
Nell’attuale codice dei contratti pubblici la concorrenza è una nozione indubbiamente fluida che si dipana attraverso molteplici e disparati parametri valutativi che le stazioni appaltanti possono seguire e applicare per aggiudicare le commesse pubbliche: criteri di natura qualitativa e tecnologica; criteri esperienziali e relativi al ciclo produttivo; criteri di carattere sociale ed ecologico; criteri di contenimento dei consumi energetici; criteri di riduzione dell’impatto ambientale.
Criteri che «non conferiscono un potere di scelta illimitata» alla stazione appaltante e devono garantire la «possibilità di una concorrenza effettiva».
La previsione appare di non poco momento e testimonia come la tutela della concorrenza, nelle intenzioni legislative, abbia carattere pervasivo e forse addirittura prevalente sulla concomitante esigenza di contenere la spesa pubblica.
A lasciarlo intendere è lo stesso Codice dei contratti pubblici quando precisa che il «principio di economicità può essere subordinato, nei limiti in cui è espressamente consentito dalle norme vigenti e dal presente codice, ai criteri, previsti nel bando, ispirati a esigenze sociali, nonchè alla tutela della salute, dell’ambiente, del patrimonio culturale e alla promozione dello sviluppo sostenibile, anche dal punto di vista energetico».
Tali criteri, pur apparendo obiettivamente eterogenei fra loro (vi rientrano infatti aspetti, ambientali, sociali, occupazionali e altro ancora), non sono eclettici rispetto alle esigenze di una reale competizione tra operatori economici; sono anzi strumenti di cura concreta dell’interesse pubblico perché vogliono realizzare un confronto sulla qualità complessiva delle offerte, riducendo il peso della componente economica dell’appalto.
Per questa via essi finiscono quindi per realizzare, seppur indirettamente, un effetto di stimolo della concorrenza nel significato fatto proprio dal legislatore europeo.
4. La moderna deriva ‘penalistica’: il contrasto della corruzione
Le precedenti considerazioni non sarebbero complete se non si avesse cura di notare che le recenti modifiche apportate alla disciplina degli appalti pubblici hanno fatto da poco emergere anche una terza dimensione dell’evidenza pubblica legata soprattutto al contrasto dei fenomeni corruttivi in senso lato occorsi tra stazioni appaltanti e imprese concorrenti durante la fase di gara.
Si delinea così un’ulteriore via dell’evidenza pubblica che si potrebbe definire ‘penalistica’.
Rilevano al riguardo alcune significative norme del nuovo Codice dei contratti pubblici che, ai nostri fini, occorre in breve esaminare.
La prima è l’art. 59, co. 4, lett. a) che ha chiarito che sono «considerate inammissibili», e quindi da escludere dalla gara, le offerte in relazione alle quali la «commissione giudicatrice ritenga sussistenti gli estremi per informativa alla Procura della Repubblica per reati di corruzione o fenomeni collusivi».
La seconda è l’art. 80, co. 1, lett. b) in cui si legge che devono essere esclusi dalla gara i concorrenti incorsi in «delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 317, 318, 319, 319‐ter, 319‐quater».
La terza è contenuta al comma 5, lett. c) dell’art. 80, che porta ad escludere dalla gara gli operatori in relazione ai quali la stazione appaltante dimostri che si sono resi colpevoli di gravi illeciti professionali, con una dizione estremamente generica, specie se riguardata alla luce della successiva lett. f -bis), relativa alle dichiarazioni non veritiere.
La quarta è il co. 5, lett. c-bis) del medesimo art. 80 che precisa che devono essere esclusi dalla competizione gli operatori economici che abbiano «tentato di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante».
La quinta è contenuta alla lettera d) del citato art. 80, co. 5 per cui le stazioni appaltanti devono escludere dalla gara i concorrenti che versino in una «situazione di conflitto di interessi» irrisolvibile. Altre disposizioni ancora sono riferite ad analoghe cause di esclusione.
Le previsioni traggono ispirazione dal disposto della legge 28 gennaio 2016, n. 11 che ha ribadito in termini generali la necessità di garantire a livello interno una «armonizzazione delle norme in materia di trasparenza, pubblicità, durata e tracciabilità delle procedure di gara e delle fasi ad essa prodromiche e successive, anche al fine di concorrere alla lotta alla corruzione, di evitare i conflitti d’interesse e di favorire la trasparenza nel settore degli appalti pubblici e dei contratti di concessione».
Ora, le norme appena citate pongono, a nostro avviso, un serio problema di teoria generale che appare particolarmente significativo evidenziare e su cui bisogna riflettere.
Esse hanno infatti introdotto – e questo si ricava proprio dal testo di legge – cause di esclusione dalla gara fondate su vicende penali non ancora accertate con una sentenza passata in giudicato.
Hanno dato ingresso nell’ordinamento italiano a provvedimenti amministrativi fondati su semplici ipotesi di reato, anche tentato, in deroga al principio costituzionale di non colpevolezza sino al definitivo accertamento del fatto criminoso all’esito del contraddittorio processuale.
Ora qui non si vuole ovviamente indulgere in digressioni critiche o all’opposto difensive della scelta legislativa.
Si intende solo notare che il principio garantista, che ancora contraddistingue il sistema penale italiano, appare difficilmente conciliabile con l’adozione di provvedimenti amministrativi afflittivi fondati sull’accertamento di fatti non ancora giudicati come penalmente rilevanti con una sentenza definitiva.
La tutela penale in Italia, infatti, rimane ancora ispirata a un fondamentale principio di garanzia nei riguardi del reo e a codesto principio non pare possibile derogare a Costituzione invariata.
Di questa esigenza il nuovo Codice dei contratti pubblici non sembra essersi fatto sufficientemente carico e anzi tra le righe delle sue disposizioni (specialmente quelle appena menzionate) pare emergere l’opposta constatazione per cui il contrasto della corruzione nelle gare d’appalto pubbliche, anche solo nelle forme più tenui del tentativo, rappresenti un’esigenza pressoché assoluta.
Un’esigenza che non solo può condurre alle estreme conseguenze la tutela di una (corretta e non corrotta) concorrenza tra gli operatori economici anche a scapito dell’offerta migliore, ma può addirittura giustificare eclatanti deviazioni dai principi costituzionali in punto di tutela giurisdizionale penale (art. 27 Cost.).
In tal modo il legislatore vuole (o forse pretende di) ribaltare sulla stazione appaltante, chiamata ad operare in via preventiva nel procedimento di gara in base a un giudizio prognostico e inevitabilmente parziale del fatto, quello che dovrebbe fare il giudice penale nel corso del processo con le garanzie del contraddittorio nella formazione della prova.
L’effetto così prodotto è quello di innestare nel sistema delle gare pubbliche un’impronta marcatamente penalistica, peraltro ampliando a dismisura la discrezionalità dell’amministrazione aggiudicatrice, nel tentativo maldestro di anticipare in tale non appropriata sede gli effetti della repressione dei fatti penali.
Una finalità che solo marginalmente dovrebbe interferire con la ricerca di un criterio di efficienza funzionale – come appresso si dirà – che è alla base di tutta la contrattualistica pubblica, che resta fortemente inciso da una ipertrofica produzione normativa, figlia di pregiudizi ideologici che hanno portato a sovrapporre la disciplina e la regolazione dello Stato banditore con gli strumenti di repressione della corruzione, tanto da coniugare i due obiettivi anche sul piano istituzionale, denominando Autorità Nazionale Anticorruzione il Regolatore di riferimento del settore dei pubblici affidamenti.
5. L’appalto come operazione amministrativa
Quanto precede ci permette così di giungere alle conclusioni di questo breve studio e alla tesi che in esso si vorrebbe esprimere.
Le considerazioni finora svolte hanno messo in luce, seppur per fugaci tratti, come l’attuale disciplina delle procedure concorsuali pubbliche in Italia sia frutto di una graduale stratificazione di fonti normative eterogenee sia per impostazione culturale, sia per provenienza ordinamentale.
In essa antiche norme di contabilità, tese principalmente a garantire la corretta e prudente gestione del denaro pubblico, sono state doppiate da norme di stampo europeo dirette soprattutto a salvaguardare la concorrenza tra gli operatori economici.
Solo di recente a queste stesse norme ne sono state aggiunte altre che paiono invece voler anticipare, già nel procedimento di aggiudicazione dell’appalto, gli effetti del contrasto penale della corruzione in senso lato e perseguire l’obiettivo di moralizzare l’agire amministrativo.
Ne derivano così tre distinti ordini di finalità – tre anime come le abbiamo in precedenza definite: assicurare l’economicità dei contratti pubblici, tutelare la concorrenza, prevenire e contrastare fenomeni criminali.
Ora a noi sembra che il crocevia normativo che attualmente caratterizza la disciplina dell’evidenza pubblica abbia di fatto determinato un sovraccarico dell’intero ordinamento settoriale nel quale paiono convivere esigenze fortemente diverse, talvolta non sempre compatibili tra di loro. Risparmio di spesa, tutela della concorrenza, contrasto della corruzione: si tratta di finalità che tra loro coesistono a fatica, che poco o nulla hanno in comune; molto spesso avviene che l’eccessiva valorizzazione dell’una in un singolo caso finisca inevitabilmente per comportare la sottovalutazione dell’altra, specie in mancanza di un ordine di priorità che corrisponda a una precisa volontà legislativa.
Il problema non è di poco conto e caratterizza la vita quotidiana delle stazioni appaltanti troppo spesso disorientate nei meandri di una disciplina settoriale complessa e instabile che, lungi dall’orientare le scelte amministrative, finisce per porsi fondamentalmente in funzione di limite all’azione.
In un simile contesto non appare quindi semplice andare in cerca di un ipotetico e quanto mai sfuggente criterio ordinatore.
Provando però a fare un tentativo senza dubbio temerario si potrebbe allora sostenere che il fenomeno di stratificazione normativa cui abbiamo accennato – focalizzato quasi esclusivamente sul profilo pubblicistico dell’evidenza pubblica, cioè a dire la procedura di gara – abbia finito per relegare in secondo piano il profilo teleologico dell’intera disciplina dei contratti pubblici che è, e senz’altro rimane, l’esecuzione di un rapporto negoziale con l’amministrazione contrassegnato da indubbi e concomitanti profili funzionali di interesse pubblico.
La punta di diamante di tale distorsione è nell’aver introdotto una regola sino ad oggi inedita, che consente alle stazioni appaltanti, una volta esaurita la fase concorsuale e pur se ampiamente spirati i termini per le impugnazioni giurisdizionali, di rieditare virtualmente la procedura di gara con l’effetto di risolvere il contratto in corso con l’aggiudicatario, sul presupposto che questi avrebbe dovuto essere escluso dal procedimento concorsuale divenuto nel frattempo inoppugnabile.
Si tratta di una nuova ipotesi di risoluzione “facoltativa” del contratto pubblico prevista dall’art. 108, comma 1, lett. c) che riattribuisce all’amministrazione poteri ormai disciolti nella disciplina negoziale privatistica e finisce per rappresentare un possibile vulnus per il principio di certezza del diritto, oltreché porre problemi anche in termini di riparto di giurisdizione.
Non va infatti dimenticato che l’attuale Codice dei contratti pubblici, pur nella corposità e nell’estrema tecnicità delle sue previsioni riferite alla fase di selezione del contraente privato, si apre pur sempre con l’esplicita dichiarazione di voler disciplinare i contratti di appalto pubblici che riguardano la «acquisizione di servizi, forniture e lavori e opere».
La norma sembra, neppure troppo indirettamente, confermare che l’importanza e la centralità della gara devono andare di pari passo con la fase esecutiva che non può mai assumere un ruolo ancillare nella logica che informa l’ordinamento di settore.
Invece quel che emerge scorrendo le pagine del Codice è l’eccessiva e pressoché totale polarizzazione sulla fase di ricerca della controparte contrattuale: quasi che la successiva esecuzione del contratto sia una vicenda di per sé estranea o comunque marginale rispetto alla disciplina dell’evidenza pubblica; una fase che troppo spesso si tende a dare per scontata nella complessiva vicenda che riguarda l’aggiudicazione di un appalto.
La prospettiva – non serve sottolinearlo – è quanto mai fuorviante visto che proprio la fase esecutiva vale a misurare la tenuta e l’effettività dell’intero sistema di selezione prefigurato dal legislatore, che in qualche modo non può che essere logicamente servente rispetto all’esecuzione del negozio che ne deriva.
Le due fasi, quella pubblicistica e quella privatistica, sono infatti connotate dalla presenza costante dell’interesse pubblico affidato in cura all’amministrazione che vale a saldarle nel concreto andamento della vicenda contrattuale.
Esse danno vita a una complessa «operazione» intesa come insieme di atti e comportamenti che progrediscono verso un fine unitario.
Ecco perché, a voler ricercare (ma è solo un tentativo) un canale di collegamento tra le varie anime dell’evidenza pubblica, la scelta potrebbe ricadere sull’opportuna valorizzazione del rapporto negoziale sottostante, inquadrato nella sua dimensione funzionale.
Occorrerebbe in una parola riscoprire il valore sostanziale della causa del contratto d’appalto intesa come necessaria corrispondenza della procedura concorsuale allo scopo di pubblico interesse cui è preordinata: la realizzazione delle opere pubbliche, la prestazione di beni e servizi alla pubblica amministrazione; aspetti, questi, che da sempre sono all’origine la disciplina dell’evidenza pubblica non solo in Italia.
Vien da sé che tutto ciò non può e deve mai implicare affidamenti di appalti antieconomici, criminosi o frutto di logiche distorsive della concorrenza. Importa al contrario la necessità di conciliare, per quanto possibile, ognuna di queste insopprimibili esigenze con gli interessi della stazione appaltante legati all’esecuzione dei contratti che essa bandisce in favore della collettività.
Ciò significa, in altre parole, che la doverosa tutela del risparmio pubblico, della legalità e della concorrenza nella fase concorsuale deve convergere e aver sempre di mira l’effettiva esecuzione degli appalti pubblici, essendo questo l’obiettivo primario dell’ordinamento di settore.
Tale prospettiva – di intendere cioè l’appalto come un procedimento unitario scandito in fasi non distinte bensì compenetrate – è sicuramente ambiziosa e, ove attuata, potrebbe comportare a livello sociale un’autentica inversione di tendenza nel rapporto tra operatori e amministrazione implicati nella vicenda complessiva che incomincia con la gara e termina con l’esecuzione del contratto.
Potrebbe, come primo passo, servire a evitare curiose e al contempo allarmanti conclusioni della giurisprudenza (sicuramente frutto di casuale disattenzione) per cui la «realizzazione dell’opera non rappresenta in ogni caso l’aspirazione dell’ordinamento».
6. Gli spunti del Codice del processo amministrativo
Se così è, non devono allora essere guardate con sfavore alcune specifiche previsioni di legge che trovano albergo nel nuovo Codice del processo amministrativo e che permettono al giudice amministrativo di salvaguardare la stabilità di un contratto d’appalto, stipulato anche all’esito di un’aggiudicazione non del tutto legittima, qualora l’annullamento della gara rischierebbe di comprometterne la pronta esecuzione.
Ci si riferisce, in particolare, all’art. 120, co. 8-ter c.p.a. secondo cui, nella decisione cautelare contro i provvedimenti di esclusione da una gara, il giudice amministrativo tiene conto delle «esigenze imperative connesse a un interesse generale all’esecuzione contrattuali del contratto, dandone conto nella motivazione»; all’art. 121, co. 2 c.p.a. secondo cui, nei casi di appalti aggiudicati in violazione delle regole di pubblicità legale, il contratto resta efficace «qualora venga accertato che il rispetto di esigenze imperative connesse ad un interesse generale imponga che i suoi effetti siano mantenuti»; all’art. 125, co. 2 c.p.a. per cui, nelle controversie in tema di infrastrutture strategiche, la pronuncia cautelare del giudice «tiene conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell’opera».
Norme che paiono valorizzare debitamente la fase contrattuale dell’evidenza pubblica nell’ottica di una maggiore effettività e speditezza e valgono, in definitiva, a riaffermare un principio di cui non si dovrebbe mai smarrire il concreto fondamento giuridico: «l’attività contrattuale della pubblica amministrazione, essendo funzionalizzata al perseguimento dell’interesse pubblico, si caratterizza per la esistenza di una struttura bifasica: al momento tipicamente procedimentale di evidenza pubblica segue un momento negoziale», con la precisazione che, nel sistema appena delineato, la conservazione degli effetti del secondo può avere la meglio sulle esigenze di legalità della prima, cioè dell’azione amministrativa in senso stretto.
Conclusione che andrebbe solo integrata precisando il carattere comunque unitario di tale struttura duale nella quale si realizza una piena collaborazione tra il privato esecutore e lo Stato banditore.
7. Quali obiettivi perseguire
L’obiezione che si potrebbe muovere alla nostra conclusione è che essa sia forse troppo astratta o addirittura scontata.
Ciò potrebbe anche esser vero, ma spesso la soluzione a un problema complesso si può trovare prescegliendo il ragionamento più semplice.
A nostro avviso una possibile composizione delle diverse anime che attualmente qualificano la disciplina dell’evidenza pubblica in Italia – ognuna delle quali esprime un valore altrettanto meritevole di tutela – va trovata nell’esigenza di asservirle a un medesimo disegno funzionale.
È indubbio che l’evidenza pubblica implichi la costante ricerca e la tutela di concomitanti valori – economicità, concorrenza e legalità; ma essi devono sempre confluire verso lo scopo di fondo della materia: occorre dunque tornare a occuparsi degli appalti pubblici in modo concreto, avendo come traguardo la loro puntuale esecuzione, alleggerendo i compiti degli operatori e, di conseguenza, le relative responsabilità da questi assunte; responsabilità che, sotto la minaccia dell’ANAC, del controllo contabile postumo e della genericità delle fattispecie legali penalmente rilevanti, finiscono per paralizzare l’attività dei pubblici poteri.
Ogni altra preoccupazione del legislatore, senza dubbio meritevole di attenzione, può risultare controproducente se massimizzata oltre misura. Può comporre effetti collaterali che spesso fuggono a ogni controllo (aumento del contenzioso giudiziario, irrigidimento delle procedure di aggiudicazione, aumento dei livelli di regolazione).
L’auspicio, per concludere sul punto, è allora che all’eccesso di attenzione dedicata alla fase prenegoziale possa quanto prima sostituirsi una efficiente considerazione della fase esecutiva finalmente valorizzata nell’ottica funzionale della complessiva operazione posta in essere dall’amministrazione.
È recente la notizia che il Governo italiano è stato delegato a revisionare nuovamente il Codice dei contratti pubblici approvato appena due anni orsono.
L’evento di per sé non desta alcuno stupore attesa l’estrema frequenza (lo abbiamo anticipato) con cui la normativa di settore è oggetto di modifiche ed emende legislative.
Colpisce però una previsione del disegno di legge che vale la pena trascrivere in chiosa a questi brevi note.
È contenuta al punto 2 che assegna alla legislazione delegata il compito di «assicurare l’efficienza e la tempestività delle procedure di programmazione, di affidamento, di gestione, e di esecuzione degli appalti pubblici e dei contratti di concessione, al fine di ridurre e rendere certi i tempi di realizzazione delle opere pubbliche, compresi le infrastrutture e gli insediamenti prioritari per lo sviluppo del paese, nonché di esecuzione dei servizi e delle forniture, limitando i livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive europee».
È ancora presto per dire che si tratta di un’esplicita presa d’atto circa l’importanza non secondaria, anzi centrale, della fase esecutiva degli appalti pubblici nella prospettiva qui delineata.
Il disegno di legge si deve pur sempre tramutare in una legge dello Stato.
Ove ciò non fosse valga, quantomeno, come auspicio.
8. Ragioni sistematiche sorreggono il ragionamento
Si è dunque concluso per la necessità di reindirizzare sotto il profilo teleologico l’intera disciplina dei pubblici affidamenti, depurandola dal surrettizio affastellarsi dei compiti più disparati e impropriamente rimessi alla fase concorsuale. Si è anche visto come lo stesso diritto positivo dia segnali forti nel senso della salvaguardia della fase concretamente volta ad assicurare l’attuazione degli obiettivi ultimi della disciplina, e cioè quella negoziale, considerando la conservazione del contratto quale valore preminente rispetto alle stesse esigenze di legalità della (prodromica e servente) fase concorsuale.
Ora, vi è anche che affrancare parzialmente la disciplina dei pubblici affidamenti dall’esigenza di perseguire obiettivi ad essa collaterali, se non addirittura estranei, non comporta semplicemente vantaggi funzionali rispetto agli obiettivi primari che la disciplina di settore deve assicurare, ma risponde ad una esigenza logico sistematica di natura squisitamente giuridica.
Ed invero ogni vicenda, ogni complesso organico di rapporti o di fattispecie ha un insopprimibile bisogno di essere governato da principi e regole fedeli ad un medesimo disegno funzionale e, se da una parte, sono i principi e le regole a dare sostanza e vita alle fattispecie cui si applicano, v’è, dall’altra, che la stessa natura delle situazioni cui la disciplina si riferisce finisce per orientare la scelta di principi e regole di un tipo, piuttosto che di un altro, cercando rifugio all’interno del sistema naturalmente più congeniale.
In una visione che può forse apparire prosaica, v’è da dire che le astrazioni, se avulse dal contesto materiale cui assumono di riferirsi, hanno comunque vita breve. E non è infrequente che gli sporadici tentativi di regolare determinati settori, per così dire nuovi, travasando in essi la disciplina di altri, per quanto si tratti di una disciplina resistente al tempo ed anzi arricchita dal contributo di dottrina e giurisprudenza, portino a risultati fallimentari.
Orbene, vi sono una serie di fattori condizionanti la regolare partecipazione alle gare pubbliche la cui genesi e la cui cura sono tuttavia ascritte a settori ordinamentali affatto distinti da quello dei pubblici affidamenti.
Si pensi alla rilevanza che le stazioni appaltanti possono o debbono attribuire a fatti, non ancora accertati penalmente, e che dunque non hanno allo stato rilevanza giuridica stando alle regole del diritto penale, ma che potrebbero, sulla base di una valutazione meramente prognostica, assumerla in futuro.
Si pensi ancora alla regolarità contributiva o a quella fiscale, quale indefettibile presupposto per la permanenza di una impresa in gara, e alla rilevanza che può assumere, ai fini della partecipazione, una posizione anche solo temporaneamente irregolare che, se riguardata sotto il profilo della normativa che le sarebbe propria, potrebbe considerarsi irrilevante.
Sotto questo profilo, perseguire l’obiettivo di assicurare comportamenti virtuosi utilizzando lo strumento della disciplina dei pubblici affidamenti porta alla conseguenza di assoggettare tali comportamenti a principi e regole cui gli stessi sono naturalmente refrattari.
Il principio della par condicio e il formalismo proprio dei procedimenti di valutazione comparativa finiscono ad esempio per imporre la medesima conseguenza escludente a chi si trovi debitore di pochi euro, magari per un errore nell’inestricabile magma delle onerosità contributive, e a chi invece si presenti come sistematico evasore; con buona pace dei principi di ragionevolezza e proporzionalità che, fuori dal mondo delle pubbliche gare, porterebbero a ritenere del tutto irrilevante la prime ipotesi.
Allo stesso modo, alla decisione in sede amministrativa, in ordine a fatti assunti come rilevanti ai fini della partecipazione, nonostante si traduca in un provvedimento di natura sostanzialmente sanzionatoria come può essere l’esclusione da una gara, si perviene in spregio ai più elementari principi posti dall’ordinamento a tutela del soggetto cui i fatti sono ipoteticamente ascritti, ovverossia il rigore della prova, la presunzione di non colpevolezza ed il diritto ad essere giudicati dal giudice naturalmente competente, ovverossia da chi è culturalmente attrezzato per un certo tipo di valutazioni e offre al contempo garanzia di imparzialità.
Sia nella prima che nella seconda delle ipotesi fatte, vi è poi che vicende in relazione alle quali non sarebbe sorto contezioso alcuno, o sarebbe sorto con effetti limitati alle parti interessate, lo Stato e l’impresa, una volta travasate senza filtro in un sistema connotato da altre priorità, finiscono per produrre effetti tossici di ben più vaste proporzioni.
Lo stesso effetto si produrrebbe se al vigile urbano, che limita l’accesso di una via ai soggetti espressamente autorizzati a percorrerla, fosse consentito sindacare il ricorrere dei presupposti sulla base dei quali si è ottenuto il permesso di transito o addirittura la concreta idoneità alla guida del soggetto fermato, ancorché dotato di regolare patente di guida.
Senonché nessuno ha mai dubitato del fatto che alla regolarità dei permessi provvedano altri uffici ed al rilascio della patente di guida altri ancora, non fosse altro perché attribuire questi compiti al vigile urbano significherebbe consegnarli a mani incapaci di svolgerli e creare un ingorgo all’ingresso della via a traffico limitato, che sconsiglierebbe chiunque dal tentare di percorrerla.
Se ci rassegnassimo all’idea che, in un paese ordinato, alla regolarità contributiva pensa l’INPS, a quella fiscale l’Agenzia delle Entrate e ai comportamenti che possono assumere rilevanza penale provvede il giudice, peraltro dotato anche di poteri interdizione, forse potremmo pensare a disciplinare le opere e i servizi in modo che opere e servizi abbiano luogo davvero, occupandoci delle prestazioni oggetto di affidamento e senza la pretesa di rimettere ossessivamente in discussione, ad ogni occasione utile, la regolarità della “patente” di chi dette prestazioni è chiamato ad eseguire.